Separazione strutturale e reti a banda ultralarga
Lezioni da Nuova Zelanda e Australia
Massimiliano Trovato per Organo di Vigilanza
Nell’eterno dibattito sull’assetto e sul destino della rete a banda ultralarga italiana, la creazione di una rete unica strutturalmente separata dagli operatori dei servizi si è affermata come la soluzione favorita da una parte delle forze politiche e da una fazione non trascurabile degli esperti di settore. Tuttavia, il progetto è sin qui proceduto a rilento anche per la sostanziale assenza di esperienze analoghe a cui fare riferimento nella messa a punto dei processi regolamentari e industriali, e per la conseguente difficoltà di valutare l’impatto di tale operazione sul mercato delle telecomunicazioni complessivamente considerato.
Quello della separazione strutturale è, invero, uno schema assai raro nel panorama internazionale. Gli unici due casi a torto o a ragione invocati per argomentarne la praticabilità e la desiderabilità sono quelli della Nuova Zelanda e dell’Australia.
Quanto al primo, la narrazione dominante è quella di un successo senza riserve: si tratterebbe di una soluzione adottata volontariamente e tempestivamente, con conseguenze invariabilmente positive su tutte le metriche rilevanti.
Rispetto al secondo, invece, non mancano le remore: la concreta attuazione della separazione strutturale, seppur descritta come un elemento integrale del progetto governativo per la banda ultralarga, è stata in effetti condizionata alla conclusione dell’intervento e perciò ripetutamente prorogata, al punto che rimane allo stato attuale incompiuta: e, alla luce della più recente evoluzione del dibattito australiano in materia, è lecito sospettare che i protagonisti si stiano muovendo in una direzione assai diversa.
Ciò nonostante, se non altro in virtù della penuria di alternative, anche il modello australiano è stato indicato come un possibile esempio da seguire.
L’obiettivo del presente lavoro è duplice: in primo luogo, è utile fornire una ricostruzione del contesto in cui i due modelli di separazione strutturale menzionati si sono sviluppati, per sfatarne i miti e gli equivoci, e una valutazione, giocoforza parziale, dei risultati conseguiti; secondariamente, occorre soffermarsi sulla loro rappresentatività – e sulla loro eventuale replicabilità – in una situazione di mercato profondamente diversa, come quella italiana.
Alcune avvertenze preliminari. Lo scopo del lavoro non è quello di comparare diverse forme di separazione. Sull’utilità di garantire una qualche separazione tra infrastruttura e servizi, tutti (o quasi) gli osservatori concordano: è sulla misura ottimale di questa separazione che le opinioni divergono.
Pubblicazioni accademiche e documenti dei regolatori hanno proposto tassonomie molto granulari delle diverse forme di separazione verticali ipotizzabili: le tre principali sono la separazione funzionale (che prevede la creazione di divisioni separate, spesso con dirigenza e incentivi autonomi, a cui affidare i servizi all’ingrosso); la separazione legale (o societaria, che prevede la creazione di un autonomo veicolo giuridico, ma pur sempre sottoposto al controllo del gruppo); e la separazione strutturale (o proprietaria, che prevede la creazione di una società autonoma e l’alienazione della totalità, o quantomeno di una quota di controllo, del capitale azionario, cosicché venga meno ogni incentivo, anche indiretto, al coordinamento).
Non interessa in questa sede definire quale tra le diverse forme di separazione (o quale delle numerose forme intermedie) sia preferibile in astratto: interessa, invece, considerare l’effetto che il perseguimento della separazione strutturale ha avuto nei due soli casi di studio disponibili.
Tuttavia, occorre ricordare che non siamo di fronte a esperimenti naturali esattamente misurabili; e che in entrambi i casi il modello di separazione è solo uno degli elementi di una strategia d’intervento più ampia.
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